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Un libanese studia il quinto postulato di Euclide
da dieci anni, per quindici ore al giorno
Una vita dedicata a svelare
il mistero delle rette parallele

Non guida più dopo un incidente
Si è distratto per seguire l'angolo della curva
di GABRIELE ROMAGNOLI

Da La scuola di Atene
Euclide e i suoi allievi
 
BEIRUT - Questa è la storia di un'ossessione, di due rette parallele che non si incontrano mai, dei dieci (presunti) modi per dimostrarlo, ma soprattutto dei dieci anni e delle quindici ore al giorno che un uomo ha dedicato per riuscirci. Se diranno che ce l'avrà fatta otterrà un posto nella storia e avrà salvato, questo ritiene, l'edificio della geometria euclidea, la base della filosofia kantiana e il principio di una verità che, inesorabile come una retta, porta a Dio. Se diranno che i suoi studi non provano nulla, brucerà diecimila quaderni e ricomincerà daccapo, perché, di questo è certo, senza una geometria logica l'universo è caos, il cielo è vuoto e l'esistenza è priva di senso.

Il punto da cui tutto comincia è fissato all'incirca al 300 a. C., epoca in cui visse il matematico Euclide. La sua geometria si fonda su alcuni postulati, asserzioni che, a differenza dei teoremi, non hanno bisogno di essere dimostrate. Sui banchi scolastici l'enunciazione di un postulato suscita il disagio degli spiriti liberi che, pur cogliendone l'evidenza, intuiscono una parentela con i dogmi che verranno, nella politica, nel diritto e nella fede. Il quinto postulato di Euclide afferma: "In un piano, per un punto esterno a una retta è possibile condurre una e una sola parallela alla retta data e le due rette non si incontreranno mai". L'immagine che evoca è quella di rotaie di un binario dirette verso una stazione che non c'è. Niente come le "rette parallele destinate a non incontrarsi mai" ci parla, usando un diverso linguaggio, di ineluttabilità ed eternità.

Quel piano è il nostro spazio di esistenza, quel punto al di fuori della retta tutto quello che non siamo e all'infinito non saremo perché la parallela, l'altra possibilità, scorre sempre tenendosi e tenendoci a debita distanza. C'è bisogno di dimostrarlo? Ci hanno provato in molti, invano: Tolomeo e il persiano El Tussi, il gesuita Saccheri (che tentò per assurdo, aprendo le porte a geometrie parallele) e John Wallis (per similitudine). Carl Friedrich Gauss lo dichiarò indimostrabile. Persi in un gioco di scatole cinesi, Beltrami e Houel pretesero di dimostrarne l'indimostrabilità. Nessuno riuscì in nulla. Intanto Lobachewsky e Riemann creavano la geometria iperbolica e quella ellittica, alternative a quella ecuclidea, e il pensiero kantiano perdeva il proprio fondamento di verità.

Poi, nel 1939, in un villaggio libanese chiamato Ehmej, non lontano da Byblos, nasceva Rachid Matta, autoproclamato erede della tradizione di Talete e Pitagora. Suo padre era un proprietario terriero e aveva la caratteristica di azzeccare le misure esatte di un appezzamento con lo sguardo. A sette anni Rachid sentiva nominare per la prima volta Euclide. A nove, il quinto postulato. A ventuno si laureava in matematica. Prendeva anche la patente, ma smetteva di guidare al primo incidente, provocato dal fatto che si distraeva dalla guida calcolando gli angoli delle curve e ricavandone ulteriori problemi. Si trasferiva a Parigi dove conseguiva due master: ingegneria e statistica. Progettava costruzioni e insegnava numeri. Nella sua testa non c'era e non c'è quasi altro. Mi dirà, perfino, che "Dio gioca geometricamente" e che "la Trinità funziona". Il luogo dove mi dà appuntamento è l'armeria della sorella, a Jouneh, sul mare a pochi chilometri da Beirut. Lo trasporta la moglie May. Hanno un figlio che è stato decisivo per il secondo metodo di dimostrazione dell'ex quinto postulato, ora forse teorema, di Euclide. Prima di spiegarmi la sua ossessione il professor Matta gioca sei numeri al lotto per la sorella. Nel farlo precisa che il solo metodo di vincita sicura richiede di puntare con quarantadue schede, scommettendo dieci milioni di lire libanesi. "Purtroppo - aggiunge - il montepremi è di un solo milione e non posso provare di avere ragione".

Raggiunge un tavolo, ci distende sopra fogli coperti di disegni e numeri, le parole sono in francese. Dopo gli anni di Parigi, mentre in Libano c'era la guerra civile, emigrò negli Emirati, progettò edifici e ponti ad Abu Dhabi. Fu un lavoro ben pagato, gli permise di ritirarsi precocemente: decise di riprodursi e dedicarsi alla sua passione. Dodici anni fa ebbe un figlio, da dieci non fa altro che studiare le rette parallele che non s'incontrano mai. Mette la sveglia alle quattro del mattino. Calcola e scrive (diecimila quaderni in dieci anni, tutti conservati al terzo piano di una villa in montagna) fino alle sette. Da lì al tardo pomeriggio legge (algebra, geometria, filosofia, qualche poesia "perché è come la soluzione di un problema"). Al tramonto riprende a scrivere. Se guarda un film, tiene un blocco di appunti a portata di mano: tutto è geometria. Se dorme, capita che si risvegli dopo tre minuti per l'impellenza di tracciare una bisettrice.

Gli chiedo dov'era l'11 settembre 2001. Risponde che stava studiando e non si è lasciato distrarre perché "nel lungo periodo il suo problema era troppo più rilevante". Ma, come molti più noti prima di lui, non sapeva risolverlo. Il 3 ottobre seguente morì sua madre. Lui restò alla scrivania e proprio quella notte arrivò al primo metodo di dimostrazione: quello che utilizza la coincidenza di due angoli qualunque. Ci lavorò per un mese e poi dovette ammettere: funzionava. Chiuse i disegni in una cassaforte. Diede le chiavi alla moglie e le disse: "Se mi succede qualcosa, portali all'Università".

Qualche mese più tardi, nei cinquanta minuti di percorso in auto da Byblos alla villa tra i monti, mentre la moglie guidava e il figlio Jawad giocava tirandogli i capelli, ebbe la seconda intuizione, che battezzò appunto metodo di Jawad. Ne seguirono altre otto (più una considerata appendice). Dice che le soluzioni continuavano a sbocciargli davanti e non voleva lasciarli ad altri. Pensa che a Tolomeo e perfino al gesuita Saccheri sia mancata la guida dello Spirito Santo. Afferma di aver controllato per tre anni, su centinaia di libri, il suo primo metodo e di ritenerlo senza falle. Ha spedito l'esito dei suoi studi all'Accademia delle Scienze in Francia, a Heidelberg in Germania, è pronto a fare un fax alla Normale di Pisa.

Quando parla delle geometrie non euclidee tutta la faccia gli si scompone per il disgusto di una visione infetta, anarchica e atea. L'universo, ritiene, ha bisogno di una logica, di un fondamento di pensiero, di un linguaggio eterno che colleghi l'uomo a Dio e questo tramite è la geometria dimostrata, in cui la somma degli angoli di un triangolo è inferiore a 180° e due rette parallele, per ragioni non solo intuibili ma spiegabili, vanno ognuna per la propria strada. Attende con fiducia il verdetto delle università europee sui suoi studi.

Della loro validità non posso giudicare. Se avrà ragione chiede non tanto che il suo nome entri nei sussidiari, ma che ne escano le geometrie eretiche ispiratrici del caos. Poi, bisogna pur chiederglielo: professore e se in questi dieci anni e diecimila quaderni avesse fatto scarabocchi senza valore? Non esita neppure un secondo. Risponde: "Sono un uomo d'onore. Vado in televisione e dico che ho sbagliato. Poi ricomincio. Perché quella retta parallela è il cammino verso l'eternità e Dio: se non c'è una ragione a sostenerla, cadiamo nel vuoto".

(8 agosto 2004)

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